Si propone di seguito una rassegna delle principali questioni affrontate dalla recente giurisprudenza, di legittimità e di merito, in materia di responsabilità civile conseguente allo svolgimento di attività medico-chirurgica.
Natura della responsabilità
Il dibattito sulla natura della responsabilità ascrivibile a quanti esercitano una professione sanitaria in caso di danni riportati dai pazienti in cura, che sembrava essersi sopito con l’avvento della teoria del contatto sociale, ha ripreso vigore sul finire del 2012, all’indomani dell’emanazione della legge Balduzzi. Il legislatore, dopo aver coniato una regola concernente i profili penalistici della materia, sancendo l’impunità dell'esercente professione sanitaria che, sebbene versi in colpa lieve, si attenga nello svolgimento della propria attività a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ha avvertito l’esigenza di chiarire che in tali situazioni «resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile».
I dubbi, riguardanti soprattutto il regime di responsabilità del professionista che eroga le proprie prestazioni terapeutiche in una struttura sanitaria, in assenza di un contratto d’opera stipulato con il paziente su cui interviene, non hanno invero sfiorato la Cassazione. I giudici della legittimità, nella prima occasione in cui hanno avuto modo di prendere posizione sull’impatto della predetta normativa, si sono espressi nel senso che non è dato rinvenire alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, dal momento che il ricordato inciso si presta a essere spiegato con l’intento di escludere, nell’ambito aquiliano, l’irrilevanza della colpa lieve (Cass. civ., sez. VI, ord. 17 aprile 2014, n. 8940). Lo stesso concetto è stato reiterato da una successiva pronuncia che ha dichiarato l’applicabilità del criterio del foro del consumatore in una controversia risarcitoria promossa dal paziente del servizio sanitario nazionale nei confronti della struttura sanitaria pubblica in cui gli era stato praticato un intervento chirurgico, eseguito da un medico scelto dal paziente stesso e operante come libero professionista, sebbene nell’espletamento di attività intramuraria (Cass. civ., sez. VI, ord. 24 dicembre 2014, n. 27391).
Si è verificata, invece, una profonda spaccatura in seno alla giurisprudenza di merito, con posizioni non univoche persino tra magistrati dello stesso Tribunale, sul significato da attribuire alla cennata innovazione legislativa. Svariate pronunce hanno desunto dal riferimento all’art. 2043 c.c. una chiara e decisa presa di posizione in favore della tesi che riconduce la responsabilità risarcitoria del medico del medico operante all’interno di una struttura sanitaria nell’alveo della responsabilità da fatto illecito, con tutto ciò che ne consegue in tema di riparto dell’onere della prova e di termine di prescrizione, ferma restando la natura contrattuale della responsabilità della struttura medesima (Trib. Milano, 30 ottobre 2014; Trib. Milano, 17 luglio 2014; Trib. Milano, 14 giugno 2014; Trib. Enna, 18 maggio 2013, Trib. Torino, 26 febbraio 2013; Trib. Varese, 26 novembre 2012). Altre voci giurisprudenziali hanno, per contro, sostenuto che il richiamo alla norma fondamentale in tema di illecito aquiliano non sia sufficiente a concludere che la volontà del legislatore sia stata quella di modificare il titolo della responsabilità medica (Trib. Milano, 18 novembre 2014; Trib. Cremona, 1° ottobre 2013; Trib. Arezzo, 15 febbraio 2013; nonché Trib. Brindisi 18 luglio 2014, dove si precisa che, anche a voler opinare diversamente, per un verso, l’ipotetica svolta legislativa non avrebbe valenza retroattiva e, per altro verso, il suo carattere circoscritto determinerebbe un’incidenza sulla sola responsabilità medica per colpa lieve e non anche su quella per colpa grave o dolo, senza possibilità di estenderla alla responsabilità della struttura sanitaria).
Ricostruzione del nesso causale
Nei giudizi risarcitori promossi da chi lamenti un pregiudizio derivante dall’attività medica, è da ritenersi ormai un dato acquisito che l’accertamento del rapporto di causalità debba compiersi secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza. Posto che l’affermazione della riferibilità causale del danno all’ipotetico responsabile presuppone una valutazione nei termini di «più probabile che non», è dunque corretto l’operato del giudice che ignori l’esito della consulenza tecnica d’ufficio, la quale pure di norma nell’ambito della responsabilità medico-chirurgica presenta natura «percipiente», quando essa formuli una valutazione sull’efficienza eziologica della condotta del sanitario, oppure della struttura dove quest’ultimo opera, rispetto all’evento di danno come «meno probabile che non» (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22225). Peraltro, qualora l’azione o l’omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l’evento, il difetto di accertamento del fatto astrattamente idoneo a escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia «più probabile che non», da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non l’abbia, invece, effettuato (Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2011, n. 12686; Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2011, n. 3847, con cui è stata confermata la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistere un nesso di causalità tra la condotta dei medici, i quali avevano ritardato l’esecuzione di un parto cesareo, e la grave asfissia del neonato, reputando irrilevante la pur elevata probabilità statistica che l’asfissia cerebrale potesse avere avuto origine fisiologica in base all’assunto per cui, per escludere con certezza il nesso di causalità tra l’evento e la condotta del sanitario, si sarebbe dovuto disporre di un tracciato cardiotocografico, che i medici stessi avevano però omesso di eseguire nell’imminenza del parto).
Nondimeno, si è specificato che, ove l’azione risarcitoria sia stata promossa in sede penale e sia stato accolto il ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione del medico, nel conseguente giudizio civile l’accertamento del nesso causale tra la condotta omessa e l’evento verificatosi va svolto facendo applicazione della regola di giudizio propria del giudizio penale, ossia quella della ragionevole, umana certezza dell’esito salvifico delle condotte omesse, alla stregua delle informazioni sull’ordinario andamento della patologia riscontrata e delle peculiarità del caso concreto (Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2015, n. 11193).
I giudici della legittimità hanno altresì puntualizzato che, nel contesto in esame, l’impiego dello standard di certezza probabilistica comporta che la valutazione in ordine all’idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato dal paziente debba essere correlata alle condizioni del medesimo, nella loro irripetibile singolarità (Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3390, che ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto a un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo, ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, considerata l’oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia).
Uno specifico profilo oggetto di discussione negli ultimi anni è stato quello riguardante l’incidenza sulla responsabilità ascrivibile al medico delle concause naturali, tra le quali va annoverata la sussistenza di uno stato patologico pregresso del paziente. Si era, infatti, prospettata la possibilità che il giudice del merito, in sede di accertamento del nesso eziologico tra condotta ed evento, procedesse alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile al fattore naturale o alla causa umana, eventualmente mediante il criterio equitativo, con la conseguente graduazione o riduzione proporzionale dell'obbligo risarcitorio del professionista (Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975). Tale svolta è stata in seguito ridimensionata, affermandosi che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo concausale di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi a un ragionamento probatorio semplificato, tale da condurre ipso facto a un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del quantum risarcitorio; tuttavia, sul piano della relazione tra l’evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all’esito prodottesi, è concepibile l’addebito all’autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, di un obbligo risarcitorio che non si estenda anche alle conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno, bensì determinate dalla pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia riconducibile a negligenza, imprudenza e imperizia del sanitario (Cass. civ, sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991; a tale pronuncia si è ispirata Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2015, n. 8995, che ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione al danno celebrale patito da un neonato, aveva posto l’obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria in cui egli era stato ricoverato immediatamente dopo il parto, avvenuto altrove, e presso la quale aveva contratto un’infezione polmonare, sebbene le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio non avessero escluso la possibilità che un contributo concausale al pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita; nonché, tra le decisioni di merito, Trib. Firenze, 16 giugno 2014).
Sempre nell’ottica della dimostrazione del nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente, può assumere rilievo anche l’incompletezza della cartella clinica, a condizione che proprio le riscontrate lacune abbiano reso impossibile l’accertamento del legame eziologico e che il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a cagionare il danno (Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12218).
Responsabilità della casa di cura, del centro medico e dell’azienda sanitaria
È costante l’affermazione secondo cui l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in base alla quale la struttura n questione è tenuta a una prestazione complessa, che non si esaurisce nell'effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche, generali e specialistiche, ma si estende a una serie di altri aspetti, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché a prestazioni lato sensu alberghiere. Inoltre, l’ospedale e la casa di cura sono tenuti a una prestazione strumentale e accessoria, avente ad oggetto la salvaguardia del paziente, onde difenderlo quantomeno dalle forme più gravi di aggressione ed evitare che quest’ultimo infligga danni a terzi (Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2014, n. 19658; la circostanza che il paziente sia capace di intendere o di volere, ovvero il fatto che non sia soggetto ad alcun trattamento sanitario obbligatorio, non esclude il suddetto obbligo, ma può incidere unicamente sulle modalità del suo adempimento, come ha chiarito Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2014, n. 22331).
Siffatto inquadramento comporta l’assoggettamento della struttura presso la quale ha avuto luogo il trattamento sanitario contestato alla regola dettata dall’art. 1228 c.c., di modo che la struttura medesima risponde dell’inadempimento della prestazione professionale svolta dal medico, quale ausiliario necessario dell’organizzazione aziendale, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato (Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2012, n. 10616). Recentemente si è riconosciuto che il regime di responsabilità per fatto degli ausiliari è applicabile anche nei confronti del centro medico che, seppure non paragonabile a una casa di cura, non si sia limitato a mettere a disposizione i locali per l’espletamento dell’attività sanitaria, ma abbia altresì tenuto i contatti con i clienti, occupandosi della percezione delle somme che venivano poi girate ai singoli professionisti al medesimo facenti capo (Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2015, n. 19541).
Quanto alla posizione dell’azienda sanitaria locale, nei suoi confronti si è giunti a configurare il sorgere dell’obbligazione risarcitoria anche a fronte dell’illecito commesso da un medico con essa convenzionato, che abbia eseguito prestazioni curative siano comprese tra quelle assicurate e garantite dal servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge (Cass. civ, sez. III, 27 marzo 2015, n. 6243).
Si è posto anche il problema di stabilire quali ricadute abbia sulla struttura sanitaria la transazione intercorsa tra il danneggiato e il medico ivi operante. Al riguardo, nell’eventualità in cui sia stata instaurata una causa in cui la domanda risarcitoria attingeva soltanto l’operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la definizione della lite tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell’azione nei confronti della struttura sanitaria, dal momento che questa è convenuta in giudizio esclusivamente per fatto altrui (Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2015, n. 15860). In altre circostanze la struttura sanitaria potrebbe approfittare della transazione secondo le regole previste per le obbligazioni solidali; sennonché ciò non può avvenire quando tra il danneggiato e il medico sia stata raggiunta una transazione parziale, eventualmente accompagnata da un pactum de non petendo nei confronti del professionista (Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2015, n. 19541).
Consenso informato
Nella giurisprudenza di legittimità si sono registrati significativi sviluppi circa il consenso informato e le conseguenze della sua mancata acquisizione.
Da ultimo, la Suprema Corte, muovendo dall’assunto che il medico viene meno all'obbligo di fornire un’idonea ed esaustiva informazione al paziente non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, ha cassato la pronuncia che aveva negato risarcimento dei danni a derivanti da un intervento chirurgico effettuato, oltre che come convenuto al ginocchio destro menomato in conseguenza di caduta su pista da sci, anche a quello sinistro, non lesionato; il ragionamento dei giudici di merito risultava infatti carente, per non aver spiegato come mai, avendo ricevuto dal paziente il consenso scritto per l'operazione al ginocchio destro, il chirurgo si sia indotto a operare anche quello sinistro, sulla base di un consenso asseritamente acquisito verbalmente dal paziente, che oltretutto nel caso di specie non conosceva nemmeno l'italiano (Cass. civ, sez. III, 29 settembre 2015, n. 19212).
Una divergenza di opinioni sembra delinearsi quanto all’ampiezza dell’obbligo informativo. Da un lato si collocano le decisioni secondo cui il consenso informato va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, dal momento che la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono ometterle in base ad un mero calcolo statistico (Cass. civ., sez. III, 19 settembre 2014, n. 19731). Su diversa posizione si attestano coloro che, pur imponendo al medico di fornire paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità ed eventuali conseguenze, sia pure infrequenti, introducono il limite dei rischi imprevedibili, ovvero degli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, in quanto, una volta realizzatisi, verrebbero comunque a interrompere il necessario nesso di casualità tra l’intervento e l’evento lesivo (Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2013, n. 27751).
La mancata acquisizione del consenso informato, nella misura in cui pregiudica il diritto del paziente all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche, cagiona un danno distinto da quello scaturito dall’erronea esecuzione dell’intervento terapeutico, di talché ciascuno dei pregiudizi in esame è suscettibile di autonomo ristoro (Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2015, n. 2854, che, in forza di tale principio, ha cassato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto assorbito, nel risarcimento del danno da mancata acquisizione del consenso informato, anche il pregiudizio cagionato da un ortopedico per avere imprudentemente sottoposto a intervento di artroscopia un paziente affetto da gotta, esponendolo al rischio, poi effettivamente concretizzatosi, di riacutizzazione flogistica). Questa differenziazione si ripercuote sul piano processuale, nella misura in cui deve ritenersi preclusa, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., la proposizione nel giudizio di appello, per la prima volta, della domanda risarcitoria diretta a far valere la colpa professionale del medico nell’esecuzione di un intervento, dopo che in primo grado l’azione si era imperniata soltanto sulla mancata prestazione del consenso informato (Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2013, n. 11950).
Nella giurisprudenza di merito, si è ribadito che, al di fuori dei casi di trattamento sanitario obbligatorio per legge o in cui ricorra uno stato di necessità, in assenza del consenso informato, l’intervento del medico si reputa senz’altro illecito, anche quando è realizzato nell’interesse del paziente; nella medesima decisione la risarcibilità del danno da lesione della salute, che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito, ma effettuato senza la preventiva informazione del paziente, viene subordinata all’accertamento che quest’ultimo, se fosse stato adeguatamente informato, avrebbe rifiutato quel determinato intervento (Trib. Milano, 31 gennaio 2014).
Obblighi del primario
Diverse pronunce si sono occupate in modo specifico degli obblighi gravanti sui medici chiamati a dirigere un reparto o sui loro più stretti collaboratori.
Al primario si ascrive la responsabilità per i danni derivati dall’inadeguatezza della struttura sanitaria da lui guidata, ove non dimostri di aver adempiuto a tutti gli obblighi che gli impone la legge, tra i quali rientra quello di acquisire informazioni sulle condizioni dei malati e di predisposizione di adeguate istruzioni al personale per le emergenze (Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2014, n. 22338). Oltre ad acquisire la conoscenza delle situazioni cliniche riguardanti i degenti –il che può avvenire sia tramite una visita diretta, sia mediante interpello degli altri operatori sanitari– il primario è obbligato ad assumere informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici cui il paziente sia stato affidato, indipendentemente dalla responsabilità degli stessi, al fine di vigilare sull’esatta impostazione ed esecuzione delle terapie, di prevenire errori e di adottare tempestivamente i provvedimenti richiesti da eventuali emergenze (Cass. civ., sez. III, 29 novembre 2010, n. 24144). Non essendo tuttavia configurabile una responsabilità oggettiva a carico del primario, quest’ultimo non può essere chiamato a rispondere, semplicemente per il ruolo che ricopre, delle lesioni subite da un paziente che era stato ricoverato e sottoposto a un intervento mentre egli era in ferie (Cass. civ., sez. III, 31 marzo 2015, n. 6438).
Utili indicazioni circa gli obblighi gravanti sul primario e su quanti lo assistono provengono anche da recenti decisioni rese dalla Suprema Corte in procedimenti penali. Per un verso, si è affermato che il primario non può invocare l’esonero dalla responsabilità confidando che altri provveda a correggere il proprio errore (Cass. pen., sez. IV, 31 gennaio 2014, n. 4985); per altro verso, si è escluso che, nell’ipotesi di intervento chirurgico effettuato direttamente dal primario, degli eventuali errori manuali da lui commessi nel corso dell’intervento stesso possano essere chiamati a rispondere anche coloro che vi abbiano partecipato in qualità di aiuto o di assistente (Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 2013, n. 5684).
Per quel che concerne l’aiuto primario, si è posto l’accento sul fatto che la sua condotta non può dirsi corretta ove egli rifiuti di eseguire un intervento chirurgico urgente, in caso di assenza o impedimento del primario (Cass. civ., sez. III, 16 aprile 2015, n. 7682, che ha confermato la decisione con cui il giudice di merito ha ravvisato la responsabilità di un aiuto primario di ostetricia che, accertato il grave stato di sofferenza del feto sulla base delle inequivocabili risultanze dell’esame del tracciato cardiotocografico e di quello amnioscopico, a dispetto dell’estrema urgenza dell’intervento, ometteva di procedere, in attesa dell’arrivo del primario, all’esecuzione del parto cesareo, di per sé eseguibile anche da un solo medico con l’ausilio di uno strumentista).