lunedì 19 gennaio 2015

Giancarlo De Cataldo: 'Ecco perché Cassazione diventa prescrizione'

Il caso della condanna annullata per la vicenda Eternit è solo l'ultimo esempio di come l'ultimo grado di giudizio spesso si trasformi in una tragicommedia all'Italiana. Che rispecchia il rapporto tra classe dirigente e toghe. L'analisi del giudice-scrittore
DI GIANCARLO DE CATALDO


Perché in Italia affoghiamo nei processi, e altrove le cose vanno diversamente? Prendiamo il caso, eclatante, della Corte di Cassazione. È l’ultimo giudice. Subentra dopo due gradi di giudizio, e non deve stabilire se Tizio o Caio sono colpevoli o innocenti, ma se chi li ha giudicati ha interpretato bene la legge e se il giudizio è stato corretto.

Il dramma della nostra giustizia è una questione di tempi. Addirittura letali nei procedimenti penali, perché finiscono per cancellare i reati e annullare le responsabilità
In tutti i più grandi paesi europei è un giudice “eventuale”, nel senso che pochissimi vi fanno ricorso: nel 2012, le cause criminali complessivamente registrate dalla corte suprema francese erano poco più di tremila, in Spagna duemila, in Germania meno di settecento.

In Italia, nel primo semestre di quest’anno, la sola Cassazione Penale è stata investita di oltre trentamila ricorsi, ai quali ne vanno aggiunti altrettanti pendenti. Sempre nello stesso periodo, ne sono stati decisi circa la metà. La media annua, peraltro crescente, è di 100 mila ricorsi (le statistiche si possono consultare sul sito www.cassazione.it).

Il governo Renzi si prepara a rottamare le toghe. Un semplice strumento burocratico con cui si realizza quello che il centro-destra guidato da Berlusconi ha sognato per anni ma non è mai riuscito a fare. L’uscita di scena in blocco di una o due generazioni di magistrati. Quelle che vengono dagli anni Settanta e Ottanta
Ogni udienza comporta l’esame di centocinquanta/duecento ricorsi. Ogni settimana, ciascun giudice della Cassazione incamera una media di quindici sentenze, che vanno, ovviamente, scritte, depositate e motivate. Cifre da capogiro. Se ne può tranquillamente dedurre che, contrariamente al resto d’Europa, il ricorso al massimo giudice è un must del nostro sistema.

In Italia si ricorre in Cassazione praticamente per tutto. E si ricorre in Cassazione, come del resto sovente in appello, per una ragione ben precisa: perché conviene. Merito di un istituto di antica nobiltà che risponde al nome di “prescrizione”: ossia ciò che accade quando lo Stato incrimina qualcuno, ne riconosce la responsabilità, ma poi non fa in tempo a condannarlo in via definitiva. Il tempo che scorre, scandito dalle regole di un processo complesso e farraginoso, diventa un potente alleato.


Da Nord a Sud, regione per regione, ecco le cariche della magistratura che, con i pensionamenti di oltre 400 toghe, si renderanno disponibili
E così, c’è l’imputato che candidamente ammette di rivolgersi alla Cassazione “per finalità trasversali”: ossia per prendere tempo (appunto) e ritardare il passaggio in giudicato della sentenza, confidando magari, nel frattempo, in una provvidenziale scarcerazione. C’è quello che chiede le attenuanti generiche che ha peraltro già ottenuto, ma, si sa, tentar non nuoce, anche se non si può vincere niente. E c’è pure il tizio che scrive a mano una petizione (senza nessun aggancio tecnico) «sperando in una cordiale accoglienza alla mia richiesta». E pare quasi di vederlo, un novello Capannelle della commedia all’italiana, mentre, non sai bene se beneducato o sarcastico, porge ai giudici i suoi “distinti saluti”.

Il tempo, la prescrizione, sì, ma un profano potrebbe osservare: sta bene, tutti fanno ricorso, ma non tutti i ricorsi sono uguali. Le cause palesemente inconsistenti si possono e devono liquidare con un tratto di penna. Non è lì che si annidano i ritardi. Errore. Nel nostro Paese, ogni ricorso, per qualunque materia, segue un percorso obbligato, e tutti i casi hanno pari dignità. Dalla guida in stato di ebbrezza alla strage di mafia, passando per gli schiamazzi notturni. Per tutti valgono le stesse, identiche regole. E a tutti va dedicato lo stesso tempo. Il Codice in vigore, a differenza del precedente, non consente di stroncare il caso inesistente prima del dibattimento. Nel migliore dei casi, dunque, il nostro buon Capannelle arriverà a sentenza in sei/sette mesi, e la sua istanza sarà decisa, diciamo, fra una bancarotta milionaria e un omicidio stradale. Tutto tempo guadagnato, e nel frattempo, chissà!

Chi si appella e ricorre senza causa fa un duplice favore: a se stesso, perché potrebbe sempre strappare la prescrizione, e agli altri “cattivi”, perché ingolfando la macchina della giustizia la rende ancora più lenta e inefficiente. Poiché di questi tempi il richiamo ai valori rischia di essere lettera morta, e anche un po’ sgradita, sarà inutile sottolineare l’assurdità del sistema sul piano tecnico-culturale.

Meglio tentare con un argomento economico: in tempi di spending review, quante energie sono sottratte ai casi veramente rilevanti e dirottate su minuzie oggettivamente prive di senso? E come funziona da altre parti? Prendiamo il sistema inglese, al quale in parte si ispira il processo accusatorio introdotto in Italia dal codice del 1989. Il condannato ha diritto di fare appello. La questione viene esaminata in camera di consiglio da un singolo giudice. Se il giudice decide che l’appello può essere coltivato, rimette gli atti alla Corte, composta da tre membri. In caso contrario, nega il “permesso di appellare”. L’interessato può fare ricorso alla Corte, che riesamina il caso e può decidere di procedere, e quindi effettuare il giudizio d’appello, o apporre un timbro con la dicitura “loss of time”, perdita di tempo. E questo chiude definitivamente la questione. Fantascienza, per il nostro sistema.

Tenuto conto anche di altre condizioni: la presenza dell’imputato non è prevista, e quindi niente trasferimenti dal carcere con impiego di uomini e mezzi o videoconferenze con boss detenuti; assistenza legale limitata al minimo indispensabile, trascrizione degli atti solo a richiesta dell’interessato e a sue spese, e via dicendo.Tutto all’insegna di una snellezza scandita da termini rigidissimi e imposizioni vessatorie che tendono a sconsigliare il ricorso all’istituto: per dirne una, quando dichiara che l’appello è “una perdita di tempo”, la Corte può decidere che la carcerazione preventiva eventualmente patita non vale come pena. Come dire: ci hai fatto perdere un mucchio di tempo, ora pagane le conseguenze.

È evidente che un sistema così rigido non può che reggersi su un patto ferreo fra tutti gli attori della scena processuale. Nei manuali “diritto- fai-da-te” che circolano in Rete si raccomanda caldamente al condannato, prima di intraprendere la costosa e rischiosa via dell’appello, di rimettersi al consiglio del proprio legale: se mr. Barrister dice che non è cosa, inutile insistere. Va da sé, peraltro, che le valutazioni di mr. Barrister non possono che discendere da criteri di convenienza: se vivesse a lavorasse a Roma, anche il più scrupoloso legale britannico troverebbe comunque convenienza ad appellarsi. Sperando, ovviamente, nella prescrizione. Ma il problema non è solo di numeri.

Una così forte diversità non si giustifica solo con fattori tecnici. Ai tempi di Lombroso si sosteneva, dati alla mano, che i popoli latini (italiani inclusi) sono più delinquenti di quelli nordici. E si cercavano le cause economiche, sociali, antropologiche della propensione nazionale al crimine. Oggi, in epoca di criminalità globalizzata, argomenti del genere - per quanto ancora dotati di una certa carica di seduzione - non sono più accettabili. È ben vero che siamo il Paese delle mafie, ma quando poi i santuari del potere bancario, da Wall Street al Big Ben,  patteggiano risarcimenti milionari per spregiudicate operazioni di riciclaggio,  qualche cattivo pensiero si è autorizzati a formularlo. E l’attenzione va spostata su altri territori.

Il fatto è che le differenze sul piano concreto fra il nostro processo e altri sistemi europei sono rivelatrici di una più profonda, e radicalmente insanabile, alterità culturale. Il “fair trial”, oltre che un patto fra addetti ai lavori, è espressione di una forte condivisione sociale, tanto generalizzata ed estesa da essere fatta propria da tutti i cittadini. Un sistema come quello inglese, che prevede limitazioni così drastiche dell’accesso, non potrebbe altrimenti funzionare: la sua forza sta proprio in questa condivisione. Da noi si respira, per complesse ragioni storiche, politiche, culturali, un’aria completamente diversa.

Fra le classi dirigenti di questo Paese e i suoi giudici non c’è mai stato feeling. Se non per un breve periodo sotto il Fascismo. Quando le toghe dovevano giurare obbedienza al regime. Per il resto, la contrapposizione è stata la regola. A partire dall’Unità d’Italia, quando il più arretrato codice piemontese prese il posto dei più avanzati codici toscano e napoletano. Passando per le leggi Pica, che sottrassero la repressione del brigantaggio a giudici considerati troppo “liberal” dai generali torinesi (pretendevano di opporsi alle esecuzioni di massa, discriminavano fra chi era brigante e chi non lo era, e altre cosette del genere).

Lo stesso Fascismo dovette istituire un Tribunale Speciale per i delitti politici, affidandolo a uomini di provata fedeltà, per evitare che le corti ordinarie usassero eccessiva clemenza con i sovversivi. Una contrapposizione bi-partisan: la magistratura post-fascista rimase a lungo fascista, e stentò ad adattarsi alla democrazia.
Il potere, insomma, ha sempre agognato a un modello di giudice che non disturbasse il manovratore: esattamente l’opposto del disegno costituzionale. “Mani Pulite”, in altri termini, non fu che uno dei tanti passaggi di questa contrapposizione, verrebbe da dire fisiologica, fra controllori chiamati dalle leggi a esercitare il controllo di legalità e controllati insofferenti di questo controllo. Né più né meno di quanto accade, in questi giorni, con le vicende Mose ed Expo. E, nonostante la prescrizione e tutto il resto, i magistrati italiani sono considerati i più produttivi del continente dagli ultimi rapporti del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia, consultabili sul sito www.coe.int ). Sorprendente, vero? Non eravamo il paese dei giudici lumaca, dei fannulloni da raddrizzare coi tornelli e via dicendo?

Mentre di tutto ciò si dibatte in ristretti convegni (vuoi mettere l’appeal mediatico delle ferie?), in Cassazione, a un certo punto, si è spenta la luce. E non è una metafora, no. La luce si è proprio spenta in senso tecnico: un’interruzione di corrente, e il buio cala sul Palazzaccio. È accaduto il 15 ottobre di quest’anno, sul far della sera.  Ed è così che gli ermellini, cullati dal sottofondo del generatore d’emergenza, hanno faticosamente smaltito i tanti ricorsi del giorno squarciando le tenebre con la torcia dell’iPhone. Certo, un blackout non si nega a nessuno, sono incerti della vita: ma resta un’altra immagine da commedia all’italiana. Dopo Capannelle col cappello in mano, i giudici del più alto consesso che compulsano voluminosi fascicoli col telefonino in canna. L’ennesima, beffarda icona di quella che chiamiamo “crisi della giustizia”.

Il comune deve adottare la procedura concorsuale per affidare servizi legali ad avvocati esterni

TAR Campania – Salerno, sezione II, 16.07.2014 n. 1383

Quale procedura è tenuto a seguire il Comune che intenda conferire ad avvocati l’incarico di collaborazione esterna ad alto contenuto di professionalità da svolgersi per la consulenza legale, giudiziale e stragiudiziale, a tutti gli organi comunali per la durata di un anno?

E’ quanto si è domandato un avvocato che ha impugnato la delibera di un Comune deducendone l’illegittimità per violazione dell’art. 7 del D.lgs. n. 165/2001 in quanto, vista la natura dell’incarico, l’Ente Locale avrebbe dovuto porre in essere la procedura concorsuale di tipo selettivoaperta alla partecipazione di tutti coloro che, in possesso dei titoli e dei requisiti richiesti, aspiravano al conseguimento dell’incarico.

Il TAR della Campania – Salerno, sezione II, con sentenza del 16.07.2014 n. 1383 ha dichiarato il ricorso fondato disponendo che la mancata attivazione, nel caso di specie, della procedura comparativa ha determinato l’illegittimità della delibera che deve quindi essere annullata.

Nello schema di convenzione risulta, infatti a chiare lettere, che l’incarico affidato ai legali esterni comprendeva la gestione di tutto il servizio di attività legale dell’amministrazione.


Il Regolamento per la disciplina degli incarichi esterni, approvato dallo stesso Comune, stabilisce però che “allo scopo di garantire la trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa, unitamente alla professionalità degli incarichi, ammette la possibilità di procedere al conferimento diretto di incarichi legali a professionisti esterni nelle sole e limitate ipotesi di rappresentanza e difesa in giudizio e di particolari consulenze, prevedendo negli altri casi l’utilizzo di procedure selettive per la scelta del professionista esterno”.

La Giurisprudenza contabile (Corte dei Conti, sez. Reg. Controllo Basilicata, parere 8/09), inoltre, sottolinea l’esigenza di distinguere la nozione di servizio legale da quella di singolo incarico difensivo

Il primo si caratterizza per un quid pluris sotto il profilo dell’organizzazione, della continuità e della complessità rispetto al singolo contratto d’opera intellettuale.


L’Autorità per la Vigilanza sui Contratti con determina n. 4 del 7/07/2011 afferma che l’affidamento dei servizi legali è configurabile quando l’oggetto del servizio non si esaurisce nel patrocinio legale a favore dell’Ente ma si configura quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisce.

La legge 104: i permessi retribuiti

La principale fonte normativa in tema di permessi lavorativi retribuiti è costituita dalla Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate (L. 104/92 così come modificata dalla L. 53/2000, L. 183/2010 e dal d.lgs. 119/2011), la quale, all'art. 33, disciplina le agevolazioni riconosciute ai lavoratori affetti da disabilità grave e ai familiari che assistono una persona con handicap in situazione di gravità. Le definizioni contenute all'art. 1 della legge 104 chiariscono che "è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione" e che sussiste situazione di gravità "qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione". Il soggetto che richiede o per il quale si richiede il permesso non deve essere ricoverato a tempo pieno in una struttura specializzata.

Gli aventi diritto 

I permessi retribuiti possono essere richiesti al proprio datore di lavoro, pubblico o privato, da:
disabili con contratto individuale di lavoro dipendente: sono inclusi anche i lavoratori in modalità part-time, sono invece esclusi i lavoratori autonomi e quelli parasubordinati, i lavoratori agricoli a tempo determinato occupati in giornata, i lavoratori a domicilio e quelli addetti ai lavoro domestici e familiari;
genitori lavoratori dipendenti: madre e/o padre biologici, adottivi o affidatari di figli disabili in situazione di gravità anche non conviventi;
coniuge lavoratore dipendente: resta attualmente escluso il convivente more uxorio anche se in proposito sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale, da ultimo con ordinanza del 15/09/2014 del Tribunale di Livorno;
parenti o affini entro il II grado lavoratori dipendenti: figli, nonni, nipoti, fratelli, suoceri, generi, nuore, cognati del soggetto disabile con lui conviventi;
parenti o affini entro il III grado lavoratori dipendenti: zii, nipoti, bisnonni, bisnipoti nel caso in cui genitori o coniuge siano ultrasessantacinquenni ovvero in caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti degli altri soggetti sopra individuati.

Cosa spetta

I permessi retribuiti ai sensi della legge 104 si traducono, per il lavoratore disabile, in tre giorni di riposo al mese o, in alternativa, in riposi giornalieri di una o due ore. Per i genitori e i familiari lavoratori, è necessario distinguere in base all'età dell'assistito:
- genitori con figlio disabile di età inferiore ai tre anni: diritto al prolungamento del congedo parentale previsto fino al compimento dell'ottavo anno di vita del figlio, per un periodo massimo di ulteriori tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, ovvero che, in caso di ricovero, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore; tre giorni di permesso mensile fruibili anche alternativamente; riposi orari di una o due ore per giorno a seconda dell'orario di lavoro. 
La fruizione dei benefici non è cumulativa;
- genitori con figlio disabile di età compresa tra i tre e gli otto anni: diritto al prolungamento del congedo parentale previsto fino al compimento dell'ottavo anno di vita del figlio, per un periodo massimo di ulteriori tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, ovvero che, in caso di ricovero, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore; tre giorni di permesso mensile fruibili anche alternativamente ma non anche riposi orari;
- genitori, coniuge e parenti di disabile maggiorenne: tre giorni di permesso mensile.
Anche in assenza di una specifica norma sul preavviso, qualora i permessi siano richiesti tempestivamente al datore di lavoro, questi non può legittimamente rifiutarli; il concetto di tempestività dev'essere concretamente determinato avendo riguardo sia per le necessità del lavoratore sia per le necessità tecnico-amministrative del datore di lavoro. Circa la frazionabilità in ore dei permessi giornalieri da parte dei familiari, tuttavia, nel silenzio del legislatore, si deve ritenere che non possa essere accordata nel caso in cui determini problemi di natura organizzativa per l'impresa o l'amministrazione.

Come fare domanda

Per poter beneficiare delle agevolazioni previste dalla legge 104, è necessario presentare specifica domanda sotto forma di autocertificazione da cui risultino le condizioni personali ovvero di quelle del familiare assistito (dati personali; relazione di parentela, affinità o coniugio; stato di handicap). Nel settore pubblico le domande sono esaminate dai dirigenti dell'amministrazione di riferimento. Nel settore privato, invece, è necessario che la disabilità risulti dall'apposito verbale compilato a cura dell'INPS su domanda dell'interessato e previa visita medica di verifica, la richiesta di permesso, inoltre, deve essere trasmessa per mezzo di specifici moduli predisposti. La domanda di permesso retribuito, che deve contenere l'indicazione dello specifico permesso di cui si intende usufruire, ha validità a partire dalla data di presentazione e non scade al termine dell'anno solare, eventuali variazioni delle notizie o delle situazioni autocertificate nel modello di richiesta devono essere comunicate entro trenta giorni.

Risorse utili

Sezione modulistica nel sito dell'INPS (fare ricerca con parole chiave)

Lo stato della giustizia in Italia nel 2014 La relazione di Andrea Orlando al Parlamento

Camera dei Deputati. Alle ore 9:00, nell'Aula di Montecitorio, le Comunicazioni del guardasigilli sull'amministrazione della Giustizia, ai sensi dell'articolo 86 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, come modificato dall'articolo 2, comma 29, della legge 25 luglio 2005, n. 150. Nell'intervento di Andrea Orlando, il punto sullo stato della Giustizia in Italia nell'anno appena trascorso, sulle riforme varate e i provvedimenti in cantiere per migliorarne l'efficienza. Al termine, il guardasigilli deposita la Relazione ministeriale sull'amministrazione della Giustizia nel 2014.

Nel pomeriggio, alle ore 16:00, le Comunicazioni del ministro nell'Aula del Senato. 

L'intervento alle Camere anticipa di qualche giorno la tradizionale cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario in Corte di Cassazione, il prossimo 23 gennaio, alla presenza delle massime istituzioni dello Stato.

Rapimento e liberazione Greta e Vanessa: il commento di Federico Baccomo “Duchesne”

Sto leggendo tanti commenti relativi alla vicenda del rapimento di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, e la ricorsività di temi e argomenti di alcune persone mi ha suggerito l’opportunità di regalare loro un commento preconfezionato che possano copiare e incollare per poi tornare subito a controllare la cottura del risotto.
***
“Cioè, allora, io non voglio dire che se la sono cercata, non mi permetterei mai, ma, per la mia opinione, cioè obiettivamente, un pochino se la sono cercata, perché dai, è proprio una cosa che è ovvio che uno non se lo cerca di essere rapito, solo un pazzo, ma se ci sono paesi come la Siria che sono all’avanguardia nell’industria del rapimento, e tu ci vai di tua spontanea volontà, e poi ti rapiscono, allora scusatemi la franchezza, ma è come se te la cerchi veramente, perché diciamo le cose come stanno, se uno rimane a casa sua nessuno viene a rapirti, a meno che entrano dentro casa forzando proprio le serrature con qualche strumento, e allora sono il primo a dire poverette, ma anche lì, bisogna vedere caso per caso, perché se hai la porta di ingresso non blindata, di quelle che basta un colpo per buttarle giù, allora, anche lì, te la vai un po’ a cercare che uno ti entra in casa e ti rapisce, e magari, dico per ipotesi, ti porta addirittura in Siria, ma non è questo il caso, queste due tra virgolette “volontarie” (volontarie del rapimento, mi verrebbe da dire, è solo una battuta, non voglio offendere nessuno, #jesuischarlie), queste due volontarie a casa magari avevano pure le porte blindate di marca Italserramenti di classe 3 con il nottolino antitrapano ma poi a che cosa ti serve pagare fior fior di migliaia di Euro compresa la manodopera per l’installazione se vai a metterti in pericolo da sola?, stai a casa tua, no?, come la minigonna, non è che mi permetto di dire che se ti metti la minigonna e poi ti stuprano, allora te la sei cercata, ma se ti metti la minigonna, e poi vai a fare un giro in posti pericolosi e bui, ma non di quel buio che non si vede niente, no, quel buio che lascia comunque un po’ di luce al delinquente che si accorge subito che indossi la minigonna, vabbé, ma allora di che cosa stiamo parlando?, è ovvio che vieni stuprata, e non voglio dire che fanno bene, perché nessuno fa bene a stuprare, è un gesto davvero sgradevole che io condanno senza se e senza ma, però in quel caso te lo devi aspettare, per cui, se una vuole stare tranquilla, secondo me, chiama la Italserramenti e poi se ne sta a casa sua, pure con una minigonna molto corta. Anche perché noi paghiamo le tasse.”

A margine del decreto Balduzzi

di Antonio Ivan Natali
Giudice Tribunale di Brindisi
Le molteplici incongruenze e i profili di incostituzionalità di una riforma priva di coerenza sistematica

L‘analisi dell’art. 3 della L. Balduzzi non può prescindere da un approccio sistematico, nonché dall’analisi del “segmento” penale della fattispecie.
Partiamo dai dati oggettivi, ricavabili dalla lettura del dato testuale della norma o individuati in via interpretativa.
Sono agevolmente enucleabili delle limitazioni del suo ambito operativo.
In primis, la stessa, anche ai fini della responsabilità civile, si deve ritenere applicabile solo alle ipotesi di imperizia lieve. Infatti, come evidenziato, in maniera univoca, dalla giurisprudenza di legittimità penale, ed, in particolare, dalla Cassazione penale n. 11493 del 24 gennaio 2013, proprio in relazione alla fattispecie de qua, “la citata disposizione obbliga, infatti, a distinguere fra colpa lieve e colpa grave, solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e grave nell'accertamento della colpa penale. Tale norma non può, invece, involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perché, come sopra sottolineato, le linee guida contengono solo regole di perizia[1].
E’ evidente la coerenza sistematica che tale soluzione interpretativa viene a garantire con il significato precettivo di cui all’art. 2236 c.c., quale rimodulato dalla giurisprudenza del Giudice delle Leggi.
Infatti, la C.C. n. 166 del 28 novembre 1973 ha affermato la non punibilità del medico – per colpa lieve – in caso di “speciale difficoltà”, soltanto ove si tratti di imperizia, non quando si tratti di negligenza ed imprudenza.
Quanto al rapporto tra le due fattispecie, l’art. 3, diversamente dalla norma del codice del ’42, non contempla le ipotesi di speciale difficoltà.
Anche a voler superare il suddetto dato interpretativo – e non si comprende come ciò sia possibile, senza violare la coerenza del sistema, nonché la funzione di nomofilachia della Suprema Corte – non può ritenersi che l’art. 3 del decreto trovi applicazione al di fuori dell’ipotesi di colpa lieve.
In tal senso, depone il dato normativo.
In ogni caso, e tale aspetto è condiviso anche dalla tesi “contrattuale”, sposata da una sezione del Tribunale di Milano, oltre che dal Tribunale di Varese, la norma de qua si applica solo al medico e non anche alla struttura sanitaria.
In ultimo, la fattispecie de qua, in virtù del divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, non ha carattere retroattivo.
Orbene, la norma, successivamente alla sua entrata in vigore, ha destato plurime interpretazioni[2].
Per taluni, il legislatore speciale avrebbe voluto optare per il modello aquiliano. Si afferma, a tal riguardo, che il Legislatore, in presenza di una determinata scelta interpretativa del diritto vivente, potrebbe esprimere un’opzione anche implicita.
Ciò, diversamente dall’ipotesi in cui ricorra una norma di diritto positivo specifica e puntuale, la cui modifica richiederebbe necessariamente un intervento normativo espressoe ad hoc.
I sostenitori della tesi “contrattuale” - che disconoscono qualunque capacità di innovazione alla norma de qua sotto il profilo qualificatorio - invocano una svista o sciatteria legislativa che avrebbe dato luogo ad un riferimento solo esemplificativo, e non esaustivo alla tipologia di rimedi azionabili.
Tale tesi – avallata, seppur con motivazione succinta, dalla stessa Suprema Corte, con ordinanza del 17 aprile 2014 (est. Frasca) - troverebbe conferma nel testo originario della norma che fa riferimento agli artt. 2236 e 1176 c.c. quali nome regolative della responsabilità, non aquiliana, ma ex contractu.
A fronte di tali plurime opzioni esegetiche, s’impone l’interrogativo se il diritto possa e, anzi, debba essere suscettibile di un’interpretazione “socialmente orientata”; e, cioè, se sia possibile e doveroso che l’interprete, fra più opzioni esegetiche, prediliga quella che, oltre ad essere costituzionalmente conforme, dia risposta più in linea con il “sentire sociale”, nei limiti in cui lo stesso codifichi esigenze di tutela compatibili con il sistema, meritevoli di tutela.
Occorre muovere dal contesto interpretativo di riferimento in cui  è intervenuto il Decreto Balduzzi.
In primis, la responsabilità medica era stata attinta dalle S.u. 13533 del 2001, in materia di onere della prova.
Prima dell’intervento chiarificatore della suddetta pronuncia, l’onere della prova mutava a secondo che venisse in rilievo un intervento routinario – salva la difficoltà di comprendere come sostanziare tale qualificazione, ovvero, se riconoscere rilievo al grado di alea oppure di difficoltà tecnica dell’intervento chirurgico, o, in alternativa, all’esistenza di pratiche operative e di  standard più o meno diffusi - nel quale caso il paziente doveva dimostrare la routinarietà; e gli inteventi non routinari, nel quale caso il paziente doveva dimostrare, per contro, l’errore medico.
Dopo le Su del 2001, che accolgono una concezione unitaria dell’adempimento, l’onere della prova viene per così dire “omologato”, divenendo uniforme, a prescindere dalla tipologia di obbligazione che venisse in rilievo o dal suo oggetto, con l’unica eccezione delle obbligazioni negative.
E la Suprema Corte (Cass. 2013) aveva avuto la cura di precisare come la responsabilità medica non facesse eccezione e non rispondesse a regole probatorie sue proprie, diverse e specifiche rispetto a quelle conformative dell’inadempimento di ogni altra obbligazione.
Per contro, la distinzione tra intervento routinario  e non routinario, dopo tale approdo interpretativo, conserva rilievo non ai fini dell’onere della prova del paziente - che deve solo allegare l’errore e che è, dunque, indifferenziato -, ma ai fini dell’onere della “controprova”, a carico del medico, in base al parametro dell’art. 2236 c.c.
Se l’intervento non è ruotinario,  cioè, è sufficiente provare una colpa lieve e non grave o, in alternativa, che, nel caso di specie, si è realizzata l’alea tipicamente sottesa a quella tipologia di intervento.
Se  l’intervento é routinario, diviene, invece, necessario provare che si è verificata un’alea, solitamente non sottesa a quella tipologia di intervento.
Per contro, ai fini dell’esonero dalla responsabilità, non è sufficiente provare la ricorrenza di un’ipotesi di colpa lieve, e non grave.
Quanto al diverso profilo della prova del nesso causale di tipo materiale[3] ovvero quello fra condotta ed evento naturale, è indubbia l’incidenza delle sentenze a S. U.  577 e 582 del 2008, secondo cui tutte obbligazioni non sono di mezzi, ma mirano, pur sempre, e, dunque, hanno ad oggetto un risultato.
La diligenza cui è tenuto il debitore, compreso il medico, è una diligenza non solo qualificata, perché commisurata alla tipologia e alla natura dell’attività esercitata, ma è efficiente ovvero mira ad un risultato, con inevitabili ripercussioni sull’onere della prova.
Orbene, prima delle suddette pronunce, doveva ritenersi che il nesso causale materiale[4] (sostanziandosi nella relazione fra condotta ed evento, sub specie dell’inadempimento) inerisse il profilo del danno e, dunque,  dovesse essere provato dal paziente.
Successivamente, dopo che il raggiungimento del risultato è stato portato all’interno dell’obbligazione dovuta – e che, simmetricamente, il mancato raggiungimento del risultato dovuto rileva ai fini dell’inadempimento - può ritenersi che il nesso causale materiale inerisca l’inadempimento (vi è inadempimento, se non vi è diligenza o anche se non vi è stato il risultato) e, dunque, possa essere semplicemente allegato dal paziente.
Ovviamente, il nesso causale giuridico – diversamente da quello materiale - deve essere sempre provato dal paziente danneggiato.
Orbene, se, in materia di responsabilità medica, si dovesse optare per il modello aquiliano, occorrerà che il paziente provi anche il nesso causale materiale, nonché la colpa che, invece, stando alla tesi dell’inadempimento soggettivo si presume.
Quanto al segmento penale della fattispecie, è stato evidenziato come, per la prima volta, sia stata introdotta la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, quale vero e proprio parametro di determinazione dell'an della responsabilità penale.
Fin ora, il grado della colpa, in ambito penale, aveva rappresentato un mero criterio di quantificazione della pena.
Ciò in quanto, in materia di responsabilità penale, era prevalsa una concezione unitaria della colpa (che aveva portato la giurisprudenza più recente a disconoscere qualunque rilievo esimente, in ambito penale, all’art. 2236 c.c. con la conseguente sanzionabilità anche dell’imperizia lieve).
La norma aveva destato, fin da subito, perplessità interpretative.
Secondo una prima lettura, colpevole di un approccio esegetico superficiale, l’art. 3 avrebbe sancito una contraddizione in termini in quanto il legislatore speciale avrebbe prefigurato una responsabilità penale, nonostante il rispetto delle linee guida e, quindi, nonostante l’assenza di profili di responsabilità (c.d. in culpa sine culpa[5]).
Ma, da parte di una più attenta Dottrina, si è evidenziato come  le linee guida sono classicamente intese come collaudato standard di perizia, ragion per cui il loro rispetto esclude la colpa, solo nell’ipotesi in cui venga in rilievo un difetto di perizia. 
Tale approccio ha avuto l’avallo della Suprema Corte penale che ha evidenziato come le linee guida non esauriscano le regole cautelari vigenti in relazione all’attività, medica, in cui il progresso e le nuove scoperte sono costanti — e, non lo si dimentichi, auspicabili — ed è ben possibile che il soggetto agente con la sua condotta violi un'altra o altre regole cautelari da applicarsi nel caso concreto o erri nell'adeguare, in base alle contingenze specifiche, le linee guida e le buone prassi seguite.
Inoltre, se le linee guida (che possono presentare un vizio genetico, perché rispondenti ad esigenze economicistiche) contengono valide indicazioni di massima, modulate sul caso astratto e generale, non può negarsi che il medico sia sempre tenuto ad esercitare la propria discrezionalità tecnica,  ponderando le circostanze del caso di specie e la peculiare situazione del paziente.
Ciò, gli consente, sulla base di un giudizio personale, ma ancorato a dati obiettivi, di disattendere, pur nel costante rispetto della volontà del paziente, le regole cristallizzate nei protocolli medici.
Dunque, l’osservanza delle linee guida e, dunque, l’essersi attenuto alle stesse, non esclude, di per sé, la colpa del medico, ma, qualora questi rispetti i suddettistandard di perizia imposti da regole preventivamente codificate, risponderà solo nell’ipotesi di colpa (sub specie di imperizia) non lieve, ma grave.
Altro profilo di novità è rappresentato, secondo taluna dottrina, dalla circostanza che si soggettivizza la colpa, riconoscendo rilievo solo alla qualificata riconoscibilità dell’esistenza di regole cautelari diverse da quelle osservate, codificate nelle linee giuda e nelle buone pratiche da applicare al caso di specie.
Ciò, in adesione al modello della c.d. doppia misura della colpa[6] che richiede non solo la violazione, da parte dell’agente, della regola cautelare, ma anche la rimproverabilità soggettiva di tale violazione.
Tali letture consentono di superare l’illegittimità - prospettata dal Tribunale di Milano in un ordinanza di rimessione (sez. IX, ord. 21 marzo 2013)[7] dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale che, dunque, non è entrata nel merito dei prospettati profili di incostituzionalita’ - dell’inciso legislativo “non risponde per colpa lieve”.
Nondimeno, per le linee guida e le buone pratiche, il dubbio di conformità al parametro costituzionale della sufficiente determinatezza, quale corollario del principio di legalità, permane.
Quanto alle linee guida[8], ne esistono diverse sotto il profilo contenutistico e funzionale. Inoltre, le stesse, a secondo della loro genesi e del loro contenuto, presentano un diverso grado di validazione e di vincolatività.
Ci si è, inoltre, interrogati se le buone pratiche coincidano con la best practice.
La differenza terminologica insita bell’uso dei due aggettivi induce a propendere per la soluzione negativa.
Sotto altro profilo, é dubbio se sia in presenza di una mera endiadi, alludendo le buone pratiche agli stessi protocolli, con l’unica differenza del carattere scritto e codificato di questi ultimi oppure se alludano ad una categoria autonoma, assunta a parametro della perizia.
Ancora non è chiaro, quando si parla di accreditamento, se ne si stata recepito un’accezione formale o se sia sufficiente un avallo, sotto il profilo, per così dire sostanziale da parte della comunità scientifica. Inoltre, non rimane chiaro da chi debba provenire l’“accreditamento”, se, cioè,  sia sufficiente la provenienza da una qualunque istituzione medica o sia, invece, necessario che esse promanino da un organo centrale, a ciò delegato da una legge approvata dal parlamento, quale organo titolare della potestà legislativa, come richiederebbe, a rigore, il rispetto della riserva di legge in materia penale.
Ancora l’inosservanza del principio di tassatività, deriva dal fatto che la “colpa”, ai fini penali, non è stata oggetto di definizione sotto il profilo contenutistico.
Ed, infatti, consapevole di tale necessità normativa, un progetto legislativo proveniente dall’università cattolica del Sacro Cuore di Milano, prevedeva la descrizione e l’enucleazione di tale concetto.
Inoltre, come evidenziato dal giudice milanese[9], la novella, per così come formulata, rischierebbe di “burocratizzare” le scelte del singolo operatore indotto alla miope osservanza di quanto prescritto da linee guida e buone pratiche, con conseguente pericolo di pregiudizio per l'evoluzione del progresso scientifico. Ciò in violazione con gli artt. 3 e 33 Cost.
Altro profilo di illegittimità costituzionale, evidenziato dal giudice remittente, è rappresentato dalla ritenuta violazione dell’'art. 3 Cost. essendo l’ambito operativo della norma troppo ristretto, sotto il profilo “interno” ed “esterno”.
In primis, il legislatore ha escluso, implicitamente, l’applicazione della norma in favore dei concorrenti nel reato che, in caso di cooperazione colposa, non rivestano quella particolare qualifica soggettiva ma che abbiano agito nella consapevolezza di contribuire alla condotta altrui, qualificata dalla veste di operatore sanitario. Inoltre, sempre secondo il Giudice milanese, la norma non sarebbe stata, irrazionalmente, estesa a chi svolga altre attività socialmente utili e, dunque, autorizzate ma intrinsecamente pericolose.
Inoltre, l’ambito operativo sarebbe «indiscriminatorio e irragionevolmente esteso » in quanto la nuova disposizione si rivolge a tutti gli operatori sanitari (veterinari, biologi, farmacisti, etc.), e non solo ai medici, in netta contrapposizione con la ratio stessa della norma, che viene rinvenuta nella creazione di una norma di favore per la sola classe medica.
Tornando alla disamina del segmento civilistico della fattispecie, dubbi di incostituzionalità pone anche il sistema risarcitorio delle micropermanenti, modulato, dal Decreto Balduzzi, sull’art. 139 Cod  Ass.
Infatti, si è condivisibilmente, evidenziato che anche a ritenere legittime le limitazioni risarcitorie intrinseche nell’operare della norma, nell'ambito della r.c. auto, in quanto rappresentante un microsistema, caratterizzato da peculiarità sue proprie[10] e imprescindibili (quanto incomprensibili) esigenze di contenimento dei costi (cfr. pronuncia del Giudice delle Leggi del 2014), non sarebbe possibile mutuare tale conclusione sic et simpliciter in relazione alla responsabilità connessa alla fruizione di una prestazione sanitaria .
D’altronde, dopo la comunitarizzazione della Carta di Nizza e l’elevazione della Cedu a fonte di principi generali, è possibile sostenere il contrasto dell’art. 139 con il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla dignità morale, con la cui tutela esordisce la Cedu; nonché con il principio del giusto processo, inteso in chiave sostanziale come equità delle regole sostanziali che la vicenda processuale è chiamata ad  attuare e, in ultimo con il principio comunitario di effettività della tutela accordata a posizioni di derivazione comunitaria, quali sono quelle incise dalla responsabilità medica (v. ordinanza rimessione alla Corte Costituzionale del 3’aprile 2012, Tribunale di Brindisi, EST. Natali).
Inoltre, una volta escluso, in virtù di quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che le Sezioni unite di San Martino[11] abbiano voluto espungere il danno morale dal panorama risarcitorio, secondo una prima tesi, avallata dalla suddetta pronuncia del Giudice delle Leggi, il summenzionato 139 ricomprenderebbe anche la voce del danno morale, ma in tal caso, si avrebbe una soluzione ermeneutica in contrasto con l’oramai acclarata autonomia del danno morale dal danno biologico.
Inoltre, è indubbia l’inidoneità dell’aumento nei limiti  del 20 per cento (1/5), previsto dalla suddetta norma, ad assicurare tutela a tutte le possibili declinazioni risarcitorie del pregiudizio morale, che, peraltro, secondo le Sezioni Unite del 2008, prescinde dall’accertamento della violazione di una posizione costituzionalmente garantita ed è, per contro, configurabile ogniqualvolta ricorra la  violazione di interessi giuridicamente rilevanti alla stregua della coscienza sociale[12].
Dunque, secondo un approccio più razionale, dovrebbe ritenersi che il danno morale esuli dal meccanismo di cui all’art. 139 e sia autonomamente risarcibile.
Anche ad accedere a tale soluzione ermeneutica, però, la disposizione de qua il cui ambito operativo dovrebbe essere limitato al danno biologico, risulterebbe inidoneo ad apprestare degna  e piena tutela allo stesso danno biologico, inteso dalle stesse Sezioni Unite di San Martino, in modo estremamente ampio, perché ricomprensivo, oltre che del pregiudizio all’integrità psico-fisica, anche del danno alla vita di relazione e del danno estetico.
Sotto il diverso profilo della coerenza interna del sistema risarcitorio da responsabilità medica, è indubbio che il Decreto Balduzzi sancisca una irragionevole differenziazione tra micropermanenti, assoggettate al “claudicante” art. 139 e macropermanenti, risarcite, dopo Cass. 12408 del 2011, sulla  base dei più congrui valori delle Tabelle Milanesi, in quanto espressive del principio equitativo cui sarebbe consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione, divenendo in tale seconda accezione, strumento attuativo del precetto di eguaglianza  di cui all’art. 3 Cost.. Infatti, l’equità[13] consentirebbe di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio[14].  
In ogni caso, è stato evidenziato come tale limitazione risarcitoria riguarderebbe esclusivamente la responsabilità dei medici per la propria attività professionale e quella (indiretta o per fatto altrui) delle strutture per l'operato dei medici.
Per contro, lo stesso dato normativo sancirebbe l'inapplicabilità di dette tabelle ai c.d. danni da carenza organizzativa che segnano, per contro, una responsabilità per fatto proprio della struttura ospedaliera.
Dunque, alla luce di tali premesse concettuali, rimane il dubbio di come - pur  a fronte di una locuzione normativa incerta e formulata in forma eccettuativa (“In tali casi resta ferma…..”) - possa riconoscersi la capacità di innovare l’ordinamento ad una norma, di tale fattura, che sembra presentare plurimi profili di compatibilità costituzionale oltre che contraddire legittima istanze di tutela provenienti dal corpo sociale.


[1] cfr. in materia, Roiati, Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, in Dir.pen.proc., 2013, pp. 222 ss.; Risicato, Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto, in Dir.pen.proc., 2013, pp. 202 ss.. 
[2] V. Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it .
[3] Cfr. , in generale, sulla tematica del nesso causale:  Masera, Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale. Gestione del dubbio e profili causali, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 179 ss.
[4] Sul nesso causale in materia penale dopo la sentenza Franzese,F.D'Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte di Cassazione sull' “oltre ogni ragionevole dubbio”. Masera, Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir.pen.proc., 2006, pp. 498 ss.; Viganò, Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice, in Corr.mer., 2006, pp. 964 ss.. 
[5] cfr. Sul tema, Cass.Pen., Sez. IV, 24.1.2013, n. 11493, inwww.cortedicassazione.it; Cass. Pen., Sez. IV, 29.1.2013, n. 16237, inwww.cortedicassazione.it); Piras, In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it, pp. 1 ss.
[6] In dottrina v. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; Marinucci, La responsabilità colposa: teoria e prassi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 2 ss.
[7] Cfr. Scoletta, Rispetto delle linee guida e non punibilità della colpa lieve dell'operatore sanitario: “la norma penale di favore” al giudizio della Corte Costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it 
[8] V. Cupelli, I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito di colpa grave del medico e linee guida) inwww.penalecontemporaneo.it ; Pavich,Linee guida e buone pratiche come criterio per la modulazione della colpa medica: rilievi all'art. 3 legge n. 189/2012, in Cass. pen., 2013, 902-912, 230; Caputo, Filo d'Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. pen. proc., 2012, 875
[9] V. Francesca Pontis, NOTA A TRIB. DI MILANO, 21 MARZO 2013, SEZ. IX  Resp. civ. e prev., fasc.4, 2013, pag. 1263.
[10] v. F.D. Busnelli,La liquidazione del danno alla persona nella R.C.A. tra legge, giurisprudenza e tabelle valutative, in Assicurazioni 2011, I, pp. 587 e ss.
[11] Sul retroterra giuridico della pronuncia de qua F.D. Busnelli, Chiaroscuri d'estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp., 2003, p. 816 ss.; G. Ponzanelli, Ricomposizione dell'universo non patrimoniale: le scelte della Corte di Cassazione, in Danno e resp., 2003, p. 831 ss.; Procida Mirabelli Di Lauro, L'art. 2059 c.c. va in paradiso, in Danno e resp., 2003, p. 703 ss..
[12] v., per quanto concerne lo statuto del danno prima della pronuncia di San Martino:  E. Navarretta (a cura di), I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Giuffrè, Milano, 2004; G. Ponzanelli (a cura di), Il “nuovo” danno non patrimoniale, Cedam, Padova, 2004; E. Navarretta,Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, iResp. civ. prev., 2001, p. 775; Id.,Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Giappichelli, Torino, 1996.
[13] Sul ruolo dell’equità in materia contrattuale e quale fonte integrativa degli obblighi pattizi: v. M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e impresa, 1999, p. 83 ss.
[14] V. Maria Fontana Vita della Corte, I danni non patrimoniali da inadempimento del sanitario: spunti di riflessione sui criteri di liquidazione,  Responsabilita' Civile e Previdenza, fasc.1, 2013, pag. 248.

Diritti, doveri e garanzie dei magistrati

In questi giorni, centinaia di nuovi magistrati entreranno in possesso delle funzioni giudiziarie.
E' fondamentale che tutti, giovani e meno giovani, conoscano l'ordinamento giudiziario e le norme che regolano la macchina giudiziaria, in ogni sua articolazione.
E' necessario che i magistrati abbiano piena consapevolezza dei diritti e dei doveri, delle garanzie (che non sono privilegi) e delle responsabilità, connessi alle funzioni giudiziarie.
Solo così eviteranno il rischio di finire vittime del complesso di norme, primarie  e secondarie, che regolano il loro lavoro.
Per questo motivo, torniamo a pubblicare, con aggiornamenti fino a gennaio 2015, un compendio di ordinamento giudiziario: dal sistema disciplinare al regime delle incompatibilità, dall'organizzazione degli uffici alle valutazioni di professionalità, dalla disciplina dei trasferimenti a quella degli incarichi extragiudiziari, dalle sedi disagiate al trattamento retributivo e pensionistico dei magistrati.
Una mappa chiara sulle competenze e le responsabilità di ciascuno: il Ministero, il CSM, i Consigli giudiziari, i direttivi ed i semidirettivi.
Un utile manuale per evitare che i giovani colleghi siano vittime del "nonnismo" giudiziario.
Ma anche uno strumento utile per praticare un vero autogoverno diffuso.

Contrasto alle mafie: proposte e riforme

Contromafie, gli Stati generali dell'antimafia è un appuntamento che Libera offre al movimento antimafia italiano, europeo e non solo, in cui le associazioni e le realtà impegnate contro le diverse forme di criminalità organizzata e transnazionale e le connesse pratiche di corruzione si ritrovano per confrontare strategie e percorsi, mettere a punto proposte di natura giuridica ed amministrativa, elaborare azioni di contrasto civile e non violento, valorizzare le buone prassi ed esperienze maturate in tema di libertà, cittadinanza, informazione, legalità, giustizia e solidarietà.
L’introduzione e le relazioni pubblicate in questo ebook, costituiscono il frutto della riflessione e del confronto che si è svolto, il 25 ottobre 2014 a Roma, in seno al gruppo di lavoro, coordinato da Anna Canepa, “Ripensare gli strumenti di contrasto alle mafie: proposte e riforme” ed inserito nell’area tematica “Per una domanda di giustizia e di verità”, gruppo che, insieme a tutti gli altri (trenta in totale, per sei diverse aree tematiche), ha contribuito all’elaborazione collettiva del manifesto della terza edizione di Contromafie, (Roma, 23 - 26 ottobre 2014). 
Il volume costituisce un'ultile panoramica dei metodi di contrasto alla criminalità mafiosa e degli strumenti di prevenzione personale e patrimoniale, ancora più necessario nei giorni in cui l'opinione pubblica acquista consapevolezza della pervasività del fenomeno mafioso, anche in territori e con protagonisti diversi da quelli a cui era tradizionalmente abituata. 

Graduatorie scolastiche, inammissibile il ricorso al giudice amministrativo

Le controversie in materia di formazione dei vari tipi di graduatorie scolastiche, ivi comprese quelle a esaurimento, non attengono a procedure di tipo concorsuale venendo, pertanto, in rilievo comuni controversie in materia di procedure di avviamento al lavoro che rientrano conseguentemente nella giurisdizione del giudice ordinario.

È questo il principio ribadito dal TAR Lazio, Sezione distaccata di Latina, nella sentenza dell'8 gennaio 2015 con la quale è stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia con la quale è stata, tra l'altro, impugnata la graduatoria ad esaurimento del personale docente della Scuola Primaria, Infanzia e Personale Educativo – triennio 2014/2017.